Storia del carnevale monfalconese

L’etimologia del carnevale deriva, dicono gli studiosi, da “carni levamen” (sollievo della carne), al figurato, concedere libertà agli istinti più elementari della carne. Altri invece dicono che abbia origine da “Carni vale!” (carne addio), con riferimento al fatto che si dava fondo a fine febbraio alle ultime scorte di carni, prima che arrivasse la nuova stagione. Così il carnevale diventava un periodo di sregolatezza, di eccessi sia alimentari che di comportamento.

Ci sono altre interpretazioni, tra queste, quella che considerano il carnevale come una libertà concessa dai potenti, alla plebe per controllarne gli umori, per fare evaporare quei atteggiamenti egualitari sognati dal popolo, per cui una volta l’anno, avveniva quella conversione sociale dove i servi la facevano da padroni.

Così infatti erano solennizzati i Saturnali romani, un periodo di libertà sfrenata, all’interno di un capovolgimento dell’ordine sociale e morale. Lo schiavo, il plebeo diventava il potente, il padrone. Ed in questo caos artificioso regnava un allegro Re, ciò che i romani chiamavano “Rex Saturnaliorum“ e dal medio evo in poi veniva detto Re carnevale.

Nel nostro carnevale vengono richiamati questi tre elementi, il ritrovarsi della gente, lo sfogo spontaneo, il Re carnevale che nella tradizione locale è interpretato da Sior Anzoleto Postier.

A questi fattori, comuni a tutte le manifestazioni carnevalesche, c’è da aggiungere per quella nostrana, l’incontro di popolo in Piaza Granda attorno al “Pilo” per cantare assieme e fare baldoria, mangiare e divertirsi.

Nei bisiachi questa è una esigenza vitale; cantare insieme, stare insieme è una necessità spirituale che va oltre la solita passione di divertirsi con il canto come si fa in osteria. Le canzoni popolari sono intimamente legate alla fatica, le gioie, ai fatti della comunità, il cantarle in gruppo è un modo, di esprimere la propria identità, per i monfalconesi questo appuntamento irrinunciabile è un’occasione in più, di ritrovarsi in piazza, dove da sempre si dipana la vita e la storia delle collettività.

Parlare del carnevale locale, oggi è, parlare, appunto de la Cantada popolare, la rivista satirica umoristica nasce molto tempo dopo, nel 1955.

Ma, parlare della sola Cantada è riduttivo perché i nostri avi festeggiavano un carnevale ricco di iniziative che noi non abbiamo saputo mantenere.

La nostra cultura non è superficiale, né povera com’è convinzione di tanti monfalconesi che hanno perso negli anni quel sano senso del campanilismo paesano tanto caro ai nostri avi.

Il mio parere di studioso dilettante è che sono mancati gli intellettuali e gli studiosi che si interessassero di tradizioni, usanze, e folklore locale e che solo da una trentina d’anni si è cominciato ad indagare su queste materie.

Tutte le ricerche sulla Cantada hanno in sè una lacuna, si basano solo sulle testimonianze verbali di anziani, documenti scritti pare non esistano.

Bisogna cercare i riferimenti, in altre culture e, in questo caso in quella veneziana che è la prevalente per il nostro modo di essere. Ricordo che la Serenissima ci ha amministrato per quasi 400 anni dal 1420 al 1797.

Diverso è invece parlare del carnevale in città, i documentali scritti ci sono, Mons. Marcon nel suo libro “La città di Monfalcone” li nomina spesso e lo fanno anche altri autori.

 

Gli esordi

Il primo documento ufficiale in cui viene nominata la città di Monfalcone e del 1260, Mainardo di Gorizia rinuncia ad ogni diritto e pretesa sulla città a favore del patriarca Gregorio.

Cento anni dopo, il Marcon, nel suo libro, cita il carnevale scrive, che pur essendo il 1362 anno di crisi in città, “avevano festeggiato un carnevale particolarmente lussuoso e brillante, con rappresentazioni di cacce, rimarco queste cacce, giostre, spettacoli vari mascherati…ecc.” Da ciò capiamo quanto antico, importante sia esso per i monfalconesi.

Nel 2012 il carnevale compirà 650 anni di storia, un traguardo importante per una comunità piccola che, ha saputo resistere per secoli e resiste tuttora alle culture contermini, più forti ed attrezzate di noi riuscendo a mantenere le proprie tradizioni, la parlata, la storia e costumi.

In quel documento si trova una traccia che potrebbe, 60 anni prima che Venezia si stabilisse nei territori, collegare il nostro carnevale idealmente a quello della città lagunare.

Oltre le giostre, i balli, spettacoli viene nominata la caccia, non vi pare una cosa inconsueta? La caccia in città’. Per i veneziani no!

E’ probabile che quelle di Monfalcone fossero rappresentazioni come dice il documento, dei drammi pastorali di moda alla metà del 1500 nel teatro, di cui la caccia era l’argomento principale o più verosimilmente si mostrassero scene di caccia della nobiltà che la esercitava come puro divertimento e non come il popolo che in essa trovava una buona fonte di sostentamento.

E’ lecito però anche pensare che quelle figurazioni si riferiscano ad imitazioni folkloriche delle cacce ai tori e agli orsi che si organizzavano a Venezia durante il carnevale. Non si sa di preciso quando queste furono introdotte nella città regina del mare, ma almeno fino all’inizio del 1800 si tenevano ancora.

Si svolgevano di notte, al lume di fiaccole, nei campielli. Il toro era tenuto legato con lunghe corde e, dei cani addestrati tentavano di addentarlo all’orecchio, quando un cane riusciva a fare ciò al “tirador” colui che reggeva la corda, liberava l’animale e il toro veniva avviato al macello. Più o meno simile era la caccia all’orso.

 

La Cantada

Per non dilungarmi oltre arrivo all’attualità.

Dal Domini sappiamo che da sempre era ed è anche adesso il comune a sponsorizzare, come si dice oggi, il carnevale, nel libro “Staranzano”, dice che il podestà Bartolomeo Minio nel gennaio del 1701, incaricava “Zuan Saprigna liron e Zuanne Petruz violino da Tolmino, de sonar sopra la festa pubblica tutte le feste del Carnevale Comunale de Monfalcon per lire 60 et…”

Sulla nascita della “Cantada”, manifestazione di popolo che si riunisce a mezogiorno, in Piaza Granda, (ora Piazza della Repubblica) per cantare e divertirsi l’ultimo giorno di carnevale e, da oltre un secolo, ascoltare il discorso satirico de Sior Anzoleto esistono due versioni, ma le argomentazioni storico culturali di Don Barto Bertotti paiono le più vere.

Nella prima il professor Fabio Del Bello lo colloca nella notte dei tempi.

Scrive che i monfalconesi si radunavano fuori la cittadella murata poiché all’interno non c’erano spazi tanto ampi da ospitare manifestazioni di popolo. Questo avveniva in prossimità del Pilo, detto anche colonna infame ai cui piedi si sviluppavano le cerimonie religiose, quelle militari, la giustizia, le feste …ma non aggiunge altro.

Don Barto Bertotti (nato 1918 morto 2001), in un articolo del 1963 su La Cantada manifesta un’altra versione.

Sotto la Serenissima, in città era festeggiato con solennità, il 25 aprile San Marco, patrono di Venezia, la festa era rispettata in tutti domini veneziani perché il santo era anche il patrono della Repubblica, festa che aumentò di prestigio verso l’anno 1000 perché i veneziani custodivano le spoglie del Santo.

Oggi San Marco coincide con la celebrazione civile.

Quel giorno dopo la “messa granda”, ricordo che in quel tempo San Marco era il patrono della nostra città, i monfalconesi andavano in processione attorno alla cittadella murata, con alla testa le autorità religiose, il Podestà, i rappresentanti del Consiglio, delle confraternite e si fermavano nel grande spiazzo erboso antistante la porta Palmanova presso il Pilo o colonna di San Marco.

La colonna era eretta all’altezza dello sbocco dell’attuale Via Sant’Ambrogio (vecchia porta Palmanova) sulla Piazza, qui all’arrivo del corteo si faceva alza bandiera di Venezia, dopo il Podestà teneva la relazione sulla stato della città, poi la gente passava la giornata facendo festa sui prati mangiando, cantando, ballando.

Questa scampagnata di popolo non è una supposizione del Bertotti, è la trasmissione di un’usanza popolare veneta e veneziana, in quel giorno le famiglie dopo le cerimonie civili e religiose, si fermavano su quei prati a mangiare la fortaia (frittata), le uova sode e il salame nuovo, era in pratica la prima marenda stagionale all’aperto dopo l’inverno.

Quando nel 1797, Monfalcone, passò agli austriaci, gli stessi con i passare degli anni hanno iniziato a considerare la colonna e la festa come simboli irredentistici, per cui la prima venne abbattuta e la festa all’inizio, appena sopportata, ed in seguito abolita.

Sostiene il Bertotti, che è nata in quel tempo la “Cantada”; infatti i bisiachi pare, con malizia e sentimento irredentista pensarono di spostarla al giorno di carnevale. Erano certi che mutando la festa del 25 aprile, in un atto burlesco ciò non avrebbe destato sospetti, ed avrebbero, così, mantenuto in vita un’usanza rispettata dai padri.

Altri sono convinti invece sia stata un semplice manifestazione di attaccamento alle vecchie tradizioni, a suggerire questa “furbata” popolare.

E’ vero che un proverbio locale caduto nell’oblio ma che tanti anzini ancora ricordano dice: pitost de perdar le tradizion, xe mei brusar al paese.

Indice di quanto erano attaccati alle loro tradizioni i monfalconesi.

 

E’ vero anche che le cronache dei giornali riportano spesso episodi dell’ irredentismo su detto. Ricordo uno per tutti di fine ottocento; durante un carnevale furono arrestati sette giovanotti perché erano mascherati da garibaldini. Sei furono rilasciati, fu trattenuto agli arresti il Sig. Umberto Cesca di Emilio perché rappresentava Garibaldi e quindi poteva essere pericoloso.

Anche il Marcon cita sul libro, un rapporto del conte Gleisbach del (1848) al Logotenente di Trieste nel quale, sottolineava le simpatie che i monfalconesi avevano per l’Italia e precisava la necessità di un presidio militare anche in questo distretto».

Detto questo, attuarono questa astuzia, facendo una parodia della manifestazione e mantenendo inalterata la formula, la processione si mutò nel giro dei cinque antichi borghi storici, Borgo San Michel, Borgo Rosta (Via IX Giugno), Borgo San Roco detto anche dei Siori (Via Duca D’Aosta) e Borgo San Jacun (Via Toti parte alta fino alla stazione); arrivo in piazza del corteo a mezzogiorno, l’alzabandiera della città di seguito “La Cantada” popolare delle antiche canzoni e quindi festa per tutto il giorno.

Non c’è alcuna certezza che all’inizio ci fosse anche l’intervento satirico, di ciò si hanno notizie verbali solo dopo 1830, ed in pratica sostituì l’intervento del capitano del popolo.

Da quel tempo la Cantada ha mantenuto inalterata la sua formula cinque momenti importanti: giro dei borghi, alzabandiera a mezzogiorno, (che per tanti monfalconesi sarebbe bene reintrodurre,) esecuzione suonata e cantata dell’inno della città e dal 1987 giuramento popolare letto dal Notaro Gratariol.

L’alza bandiera, il giuramento, l’inno vanno eseguiti con sobrietà perché impegnava ed impegna tuttora i monfalconesi a salvaguardare questa tradizione e a tramandarla. Questa parte (dicono i vecchi), rifiuta gli eccessi umoristici è, una rievocazione storica e come tale va rispettata nei dettagli come c’è stata lasciata.

Dopo Gratariol discorso satirico-umoristico de Sior Anzoleto Postier de la Defonta, chiamato così dopo la fine della Grande Guerra, quel Defonta indica in modo ironico l’ex Impero Austro-Ungarico.

Alla fine della lettura del testamento, “Cantada” collettiva, che anticamente era diretta da Anzoleto. Dal 1930 dal capo dei cantori, il primo fu Giovanni Fabris artigiano pittore, detto Pitoret, scomparso nel 1990, da allora la dirige Ettore Mazzoli, fio del Moro famiglia monfalconese de vecia radisa, commesso apprezzato e noto di una drogheria che ancora all’opera a metà in Corso. Commerciante anche Ettore in quel di Panzano, universalmente conosciuto come Ete.

Dalla testimonianza di Amedeo Manià monfalconese nato nel 1887, morto nel 1988 a 101 anni, scalpellino e musicante nella banda cittadina, conosciamo i nomi di alcuni interpreti del ruolo di Anzoleto.

Il primo sembra fu certo Guanin di Turriaco ? macellaio, il quale nel 1830 si era trasferito a Monfalcone. Ciò risulta da una ricerca dello studioso locale Vittorio Spanghero ed è il sunto tratto dai “Liber Baptizatorum, Matrimoniorum e defontorum” degli archivi storici Parrocchiali di Turriaco e San Pier d’Isonzo.

Seguì Angelo Paolini, (nel 1822 e deceduto nel 1892, di professione postier de la Defonta conosceva tutti i pettegolezzi della città, persona gentile e pronto alla battuta, sapeva intrattenere buoni rapporti con tutti, queste qualità giovarono ad allargare la popolarità della Cantada, e sua, per questo è stato fin qui l’animatore più apprezzato.

A lui va l’onore di averle dato nuovo slancio nel lontano 1884, e dice la tradizione fu il Paolini ad aver pronunciato l’anno successivo la formula con cui ordinava a tutti i Monfalconesi che:

“tale usanza non venga mai meno finché un solo Monfalconese calpesterà le strade di questa nostra cara città”.

Dopo di lui si ricordano, Checo Cidin, Paiareto al secolo Emilio Castellani, Ottavio Gerzeli soprannominato Otavin, Francesco Benco panettiere, seguì Antonio de Carvalho, al capeler poi Arturo Stefani de Carvalho e ancora Silvano Roblegg.

Nel 1965 esordirono Fabio Deffendi e Orlando Manfrini; la coppia suscitò perplessità nei monfalconesi patoc, perché non era chiaro chi dei due fosse Sior Anzoleto e fatto inconsueto, si alternavano nelle battute. Due anni dopo, nel 1967, si ritornò alle origini con Orlando Manfrini.

 

Tradizioni dimenticate

Fin qui per quel che riguarda la “Cantada” attuale, ma il carnevale di Monfalcone anticamente aveva altri momenti di aggregazione.

La festa come detto continuava sui prati e più tardi nelle osterie che ospitavano dei balli.

Nel teatro comunale, che esisteva sulla via San Ambrogio quasi di fronte gli uffici distaccati del comune, si svolgeva l’ultimo veglione carnevalesco dei monfalconesi, ed era consuetudine a mezzanote l’arrivo de Sior Anzoleto e del suo “secretario”, così era chiamato in quel tempo, siamo alla fine del 1800, il notaio.

Costoro entravano in sala e da quel momento cessavano le danze, il secretario faceva una sorta di appello di tutti i presenti e alla fine: Sior Anzoleto gridava:

– Semo tuti? ……

– Siii! – Era la risposta in coro dei presenti.

In quel momento finiva il carnevale e venivano sciolte le compagnie.

 

Al funeral

Un’altra manifestazione carnevalesca perduta è il funerale del carnevale.

A cavallo tra il 1800 e il 1900, si svolgeva della festa, il giorno dopo, alla mattina un corteo funebre con al seguito una banda che suonava marce funebri, da persone vestite a lutto, i maschi in abito scuro con appesa alla patella della giacca un’arringa affumicata, distintivo che segnalava l’inizio della quaresima.

Passava per i cinque borghi, con un pupazzo che rappresentava il carnevale, portato su una carrozza funebre. Transitava per il centro, imboccava la Via San Francesco e proseguiva, fino ai prati delle Fontanelle, dove un tempo c’era la fabbrica di frigoriferi Detroit, lì giunti con una semplice cerimonia si dava fuoco al carnevale fra i pianti sconsolati di tutti.

 

Al bo fiocà

Voglio ricordare ancora due avvenimenti del carnevale locale dimenticati ma, che almeno fino a 70 anni fa erano rispettati.

La parte più intensa iniziava con al zobia gras, giovedì grasso, l’usanza nasce da una antica tradizione veneziana, fatta propria, dai monfalconesi di qualche secolo fa.

Al bo fiocà è nata per ricordare la vittoria, del 1162, del doge Vitale Michiel II sul patriarca d’Aquileia Ulrico, che era in contrasto con il papa Adriano IV perché‚ aveva dato tutta la Dalmazia alla giurisdizione del patriarcato di Grado che era sotto Venezia. Il Patriarca volle approfittare del fatto che i veneziani stavano in quel momento combattendo contro i padovani e ferraresi, armò un esercito e assali Grado, facendo fuggire il patriarca di Grado.

Il Doge Michiel II non aspetto molto per vendicare l’oltraggio fatto alla Serenissima e con le sue navi sorprese Ulrico il giorno di giovedì grasso di quell’anno costringendolo alla resa facilmente e facendolo prigioniero con i dodici canonici.

Non potendolo punire energicamente, era impensabile mettersi contro la Chiesa, per dimostrare la potenza di Venezia trasformò la punizione in un farsa umiliandolo con una presa in giro.

Condannò il prelato a donare ai veneziani un tributo annuo di dodici pani, dodici porci e di un grosso toro che, il giovedì grasso di ogni anno venivano portati in corteo per le principali vie di Venezia.

I porci e il toro infiorato e inghirlandato, che naturalmente rappresentavano il patriarca e i suoi canonici, scortato dai favri (fabbri) e dai becheri (macellai), le due confraternite che organizzavano il corteo, arrivavano a mezzogiorno in Piazza San Marco lì, dopo un processo pantomima erano condannati a morte dal Magistrato del Popolo ed il campione designato doveva tagliare con un secco colpo di spada la testa al toro, fra lo schiamazzo e l’applauso popolare.

Curiosità, il modo di dire oggi ancora molto usato: taiar la testa al toro, che al figurato significa, togliere di mezzo gli ostacoli, finire con risolutezza una questione, nasce da questa antica usanza.

Un pezzo di carne del toro e dei porci erano dati in dono a ciascuno dei senatori della Repubblica, mentre i dodici pani erano donati ai carcerati. Come che lezè le robe bone se le cioleva, ieri come ogi, senpre i siori.

La festa proseguiva “con grandi allegrezze e molte baldorie, e accendendo di pieno giorno fuochi artificiali sulla piazza dì San Marco”, come ricorda il Molmenti.

Anche se era carnevale la festa manteneva inalterato il suo significato politico e di esibizione di potenza e prestigio, infatti tagliata la testa al toro e uccisi i porci, per il Doge e i suoi dignitari essa continuava nella sala del Piovego in Palazzo Ducale.

Lì su grandi tavole si trovavano appoggiati dei modelli in legno dei castelli friulani di quelle città che avevano appoggiato il Patriarca gradese nella rivolta contro la Serenissima, questi erano abbattuti con una mazza ferrata dal Doge e dai suoi consiglieri, davanti agli ambasciatori degli altri stati accreditati, tutto si concludeva con un grande pranzo.

Una parodia della prima parte di questa cerimonia si teneva fino a 70 anni fa nella nostra città, è la testimonianza de Goio, che già conosciamo. A fine anni ’30 in città gli ultimi ad organizzare questa usanza sono stati i Martinelli che de soracugnome fava i Bechèri, infatti erano proprietari di 3-4 macellerie nella città.

Anche a Ronchi negli anni ‘30, succedeva qualcosa di simile. Il fatto è stato riferito da Candido Colautti appassionato della nostra cultura che nei ricordi scritti d’infanzia la nomina, sulla “La Cantada” del 1987. Scrive:

‘Na usanza che no xe più, iera quela del zóbia gras vedevimo passar ogni ano par le strade ‘ncora ingiarade de Ronchi un bel manzo, cu’na ghirlanda de fiori torno al col e cun pìcà su un cortelaz, conpagnà al mazelo de do, tre becheri vistudi de festa.

La tradizione è caduta nell’oblio, ma varrebbe la pena riprendere, questo è folclore, è storia cittadina, che vale la pena di riproporre.

 

Carnevalet de le fémene

Finisco ricordando al carnevalet de le fémene, una festa tutta al femminile, che in Bisiacarìa, rammento alle bisiache, si onorava il lunedì che precede il martedì grasso. Quel giorno le donne erano libere di divertirsi a loro piacimento e allora, scrive il Colautti: se vedeva le regaze e qualche fémena più spiritada girar in màscara vistide de omo.

La festa iniziava di solito il primo pomeriggio, si riunivano in compagnie a casa di qualcuna per fare la marenda e spetegular. Il mascheramento più comune era quello di maschio, chi in terlis, altre in doppio petto con baffi e basette.

Giravano per il paese prendendo in giro gli uomini e le più matarane entravano nelle osterie soradetut dopo le cinque co i lavoradori se fermava a bagnarse al bec, anca lore le beveva un bicer e le cioleva in giro i mas’ci che bateva de carte. Qualchiduna cioleva pal fioco anca al marì, che magari parvìa che le iera mascarade no i le conosseva. Questa è testimonianza di un altro anziano.

Non come sta succedendo di questi tempi …..in cui le nostre fémene ……fanno festa il giovedi grasso, questa è una usanza tutta friulana, che nulla ha che fare con la nostra tradizione.

Qui desidero puntualizzare una fatto che concerne quella cultura: finché si tratta di scambi culturali ben vengano, questi arricchiscono tutte le culture. Non ci piace invece come è già avvenuto in altri tempi, e sta avvenendo di questi ultimi tempi, che studiosi friulani, cerchino di omologarci alla loro cultura! Noi non ci sentiamo né friulani né giuliani, siamo bisiachi e tali vogliamo rimanere.

E voglio levarmi un altro sassolino….anzi un sasson che go ta le scarpe, ci sarebbe da imbastire un’osservazione (so che ci stanno pensando altre Associazioni locali) con chi ha scritto e redatto in un’Enciclopedia Regionale in vendita qualche tempo fa in tutte le edicole.

Su di essa nel primo volume, non c’è traccia né dei Bisiachi né dei Gradesi, come se Biagio Marin e Silvio Domini e altri che hanno esaltato degnamente l’identità locale non fossero mai esistiti, come se il popolare Sior Anzoleto Postier de la Defonta nei suoi panni ottocenteschi e con la caratterizzazione che ha esibito in oltre 120 anni di storia, non possa essere ormai considerata da tutti un maschera carnevalesca al pari dei vari Fracanapa, Arlecchino e Pulcinella. Quante altre culture locali possono vantare una loro maschera carnevalesca?

L’invito che posso fare ai nostri politici, locali e regionali è che ci trattino al pari delle altre culture che esistono in Regione e che almeno in questo campo, che dovrebbe unire e non dividere, non ci siano delle discriminazioni così antipatiche e documentate.

 

San Marc dei bucui

Desidero ancora parlare di un’altra tradizione locale che è caduta nell’oblio e che ripresa potrebbe essere per i monfalconesi e bisiachi un vanto, un onore.

E’ un’usanza millenaria della città lagunare che è ancora onorata in tutto il triveneto, infatti il 25 Aprile, oltre a festeggiare San Marco, festeggiano anche i fidanzati e gli sposi, gli amanti si fa, il San Marc dei bucui. San Marco dei boccioli.

Un San Valentino nostrano che anticipa di secoli, quello attuale. Gli innamorati offrono un bocciolo di rosa alla ragazza del cuore e deve essere una rosa rossa.

Di leggende sulla nascita di questa tradizione ce ne sono molte, citerò quella che forse si adatta meglio agli innamorati.

In breve, alla metà del ’850 alcuni marinai veneziani, trafugarono le ossa di San Marco, sepolto ad Alessandria d’Egitto e le portarono a Venezia.

Al marinaio Basilio oltre agli onori fu donato un roseto che piantato nei giardino di casa dello stesso, alla sua morte divenne il confine della proprietà tra due fratelli. Il roseto su testimone di liti feroci fra i due e, smise di fiorire. Il 25 aprile di molti anni dopo sbocciò l’amore, guardandosi attraverso la pianta, tra una fanciulla del primo ramo e un giovane dell’altro in lotta. Il roseto si coprì di boccioli rossi, il giovane donò uno alla fanciulla.

In ricordo di un amore a lieto fine, che aveva restituito la pace alle famiglie, i veneziani offrono, ancora oggi il bocciolo rosso alla propria amata.

E’ l’unica parte della festa di San Marco che non è stato possibile trasferire al carnevale che, è festa di ribaltamento di valori e consuetudini.

Donare una rosa rossa quel giorno alla propria innamorata poteva sembrare una presa in giro.

Tradizione che sarebbe bene riprendere e lasciarsi alle spalle il consumismo di San Valentino che in Bisiacarìa è invocato solo contro l’epilessia, qui chiamata al mal de San Valatin.

 

Aldo Buccarella